martedì 18 ottobre 2011

La lotta, i movimenti e i partiti

La manifestazione degli “indignados” italiani, purtroppo inquinata dalla violenza, si è svolta in un quadro internazionale, contro il potere globale della finanza e delle banche.
Su questa protesta, dopo ciò che abbiamo visto in Spagna, si è scritto molto, anche negli Usa, dove è iniziata con la contestazione a Wall-Street. Ieri, in un’intervista a Repubblica, Danielle Mitterand (87 anni e presiede l’associazione France Libertés) dice che «indignarsi è giusto anzi: necessario». Io, che ho la sua età, condivido il suo giudizio, anche quando osserva che i giovani “di oggi”, per cambiare il mondo, dovranno «prima cambiare se stessi». Si riparla di cambiare il mondo e, come dice la Mitterand, di «promuovere un pensiero di vera rottura del capitalismo… mettendo al centro una sola cosa: il rispetto della vita».
Ma - ecco la domanda che dobbiamo farci - dopo questa e altre manifestazioni, quale sbocco politico prevedibile ha il movimento degli indignados?
Danielle Mitterand nota che nei giovani che manifestano non c’è una delusione per politica ma per come viene concepita e praticata. E osserva che i giovani non si riconoscono negli «attuali partiti che ormai sono diventati palestre per ambizioni e carriere di alcuni dirigenti». Questo è vero, solo in parte. Sappiamo anche che le manifestazioni hanno sempre un senso politico: ma qual è l’approdo?
L’anziana vedova di Mitterand, (ha però una sua storia politica), ritiene che «la morte dell’attuale modello economico porterà alla scomparsa dei vecchi partiti e la partecipazione democratica avverrà soprattutto attraverso le reti, sarà una politica più orizzontale».
Ho ripreso testualmente questa opinione perché è quella che anche in Italia, e in altri paesi, si fa avanti, è presente nel dibattito che si svolge non solo nelle reti.
Io, invece, temo che queste opinioni su un futuro della democrazia che ignora l’oggi allontanino i giovani dallo scontro politico che si sta svolgendo fra i partiti, e nei partiti, in tutto il mondo. Cioè, temo una separazione dei movimenti dal concreto svolgersi della lotta politica tutta a vantaggio della conservazione. La «morte dell’attuale modello economico», di cui parla la Mitterand, non è dietro l’angolo, ma ovunque si discute cosa fare per introdurre riforme incisive al «modello esistente», per impedire catastrofi sociali e tentare vie di sviluppo che mettano al centro il «rispetto della vita».
Io non penso, come altri, che il capitalismo sia l’ultima categoria della storia dell’umanità. Ma come, e quando, potrà essere superato? Nella mia giovinezza pensavo di saperlo. La storia però, e non da ora, mi ha fatto capire che non ci sono scorciatoie e occorre lottare per il progresso, i diritti, tendere all’uguaglianza degli uomini e delle donne, e gradualmente modellare la società per dare risposte anche parziali a questo cammino. È quel che ha fatto nel secolo scorso il riformismo socialista. Ed è quello che, nelle mutate condizioni del mondo, potrà fare ancora il riformismo socialista con un partito fatto di uomini e donne in carne e ossa, che si incontrano, non solo in Rete, ma in tante sedi: a discutere, a manifestare, a lottare, ad opporsi, a decidere e a governare.
Ai giovani che manifestano, direi: «Senza questo percorso, dopo le manifestazioni, ci sarà solo la conservazione del «modello esistente». È stato sempre così. E oggi questo scenario è presente soprattutto in Italia, dove manca una grande forza riformista e il vecchio modello conservatore ha assunto connotati che deformano il volto della democrazia e sporcano la politica. Occorre reagire. E si può fare impegnandosi a rinnovare i partiti, senza negare la loro storia. In questo quadro ricordiamo agli smemorati che i partiti socialisti sono strumenti, costruiti su progetti politici per modificare i vecchi modelli. I partiti, tutti, vanno governati, modificati e rinnovati con la lotta politica e la partecipazione, anche con i movimenti. Se si vuole mantenere e alimentare un regime democratico, garante di ogni progresso, non ci sono altre strade.

Emanuele Macaluso, da "Il Riformista"

(http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/411331/)

 

domenica 9 ottobre 2011

I GIOVANI SEPARATI DALLA POLITICA (di Emanuele Macaluso)

«Le difficoltà dei giovani debbono preoccuparci, senza di loro non c’è sviluppo, rischia il futuro del paese». Ieri, tutti i giornali, hanno ripreso queste parole pronunciate da Mario Draghi nel suo intervento svolto all’Abbazia di Spineto, nel corso del seminario organizzato dall’“Intergruppo parlamentare di sussidiarietà”, che fa capo a due autorevoli esponenti della maggioranza e della opposizione, rispettivamente del Pdl e del Pd: Maurizio Lupi ed Enrico Letta. Sottolineo il ruolo dei due parlamentari per il discorso che voglio fare. Le parole di Draghi sembrano una ovvietà per chi guarda come vanno le cose nel nostro paese, ma se hanno avuto l’eco a cui ho accennato significa che il tema è scottante e ognuno avverte di essere corresponsabile del fatto che un’intera generazione è tagliata fuori dal mercato del lavoro, così com’è oggi, in un paese dove le previsioni dicono che nei prossimi anni non ci sarà sviluppo.
Cosa pensano i giovani di questa drammatica realtà e cosa fanno per uscirne? È una domanda a cui è difficile rispondere, e non solo perché sono vecchio. Ieri sono stato all’Università di Tor Vergata di Roma nella facoltà di ingegneria (in Italia una delle più qualificate) dove si laureavano in elettronica undici giovani, tra cui il figlio di mia moglie. Cinque di questi ragazzi hanno ottenuto il 110 e lode, altri dei 110 senza la lode, nessuno meno di 107. Tutti presentavano tesi che avevano attinenza con innovazioni per la produzione di strumenti sofisticati che utilizzano l’elettronica. Quel che mi ha colpito nei giovani che gremivano l’aula era l’interesse per una materia, di cui io non capisco nulla, che segna la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo. Sono migliaia i ragazzi che operano in questo e in altri campi con impegno, interesse e rigore, e ci sono tanti professori bravi, colti e dediti al loro lavoro.
In quell’aula mi chiedevo: tutti questi giovani cosa pensano della politica? A me sembra che vivano un mondo pieno di interessi e separato dalla politica. Domanda che si pone se vai in altre facoltà. Discorso, da fare se vai in una fabbrica, in un luogo di lavoro.
Anche in quelli dove si lavora in nero per pochi euro e si può anche morire. Mi capita spesso di frequentare aule universitarie dove si svolgono seminari sulla storia politica del Paese e trovo sempre tanti giovani impegnati, curiosi, studiosi di storia e dottrine politiche e colgo, diversamente da altri luoghi, che matura in loro anche un interesse politico ma non di fare politica. Semmai vogliono fare i giornalisti. Io non so se vi capita di osservare i giovani che anche in questi giorni protestano per le condizioni in cui si trova la scuola pubblica: protesta squisitamente politica, di opposizione al governo, ma si ferma lì, non va oltre.
Potrei fare molti altri esempi con altri riferimenti, ma tutti pongono un problema: e la politica? E i partiti che sono o dovrebbero essere le sedi in cui la protesta e la proposta, il desiderio e la volontà di fare prevalere alcuni valori e ideali si traducono in politica e organizzazione del dissenso e del consenso, dove sono? Le parole di Draghi, le argomentazioni di studiosi, dei sindacati, della Confindustria e di tante altre organizzazioni - che ritroviamo anche nelle analisi e nelle denuncie dei vescovi - chi e come li traduce in un conflitto politico che produce discussioni politiche? Queste domande faccio a Maurizio Lupi e a Enrico Letta, organizzatori del seminario cui ho accennato. Ma anche esponenti del partito del presidente del Consiglio (si fa per dire) e del partito più forte (di consensi) dell’opposizione.
Perché tanti giovani, in fabbrica e nelle scuole, in cerca di un lavoro o di studiare e ricercare, non avvertono più di militare in un partito per esprimersi e fare valere desideri e diritti?
D’altro canto se non c’è la sede politica tutto si esaurisce nella protesta o nella rassegnazione. È la politica che dobbiamo cambiare, sono i partiti che debbono diventare partiti, sono le sedi istituzionali, a cominciare dal Parlamento, che debbono essere quel che la Costituzione prescrive.
Questo cambiamento, però, dovrebbe essere in mano ai giovani, non per guerriglie generazionali, ma per modificare i connotati che oggi la politica, e i partiti che debbono esprimerla, hanno. Se c’è un presidente del Consiglio, capo e padrone di un partito, che fa battute su «Forza gnocca», c’è qualcosa di guasto nel profondo a cui rimediare subito. È così o no, on. Lupi?

 

da "Il Riformista": I giovani separati dalla  politica.